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Il ritratto, una storia preziosa da raccontare

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Alessandro Russo è un creativo, designer e fotografo che ha l’entusiasmo, la curiosità ma anche le competenze giuste per raccontare attraverso le proprie immagini, le persone e le loro storie. E’ sempre molto attento alla comunicazione visiva e lo fa anche con dei progetti interessanti che porta avanti con altri artisti.

Breve presentazione.
«Mi chiamo Alessandro Russo e la mia “base operativa fotografica” ha sede a Scandiano, nella provincia di Reggio Emilia. Sono un grande appassionato di immagini e l’attrazione per le illustrazioni, la fotografia, la manipolazione digitale, hanno sempre accompagnato il mio percorso di crescita e di formazione sia professionale che personale. Ho studiato Architettura e lavorato nel mondo del design per molti anni, è in quest’ambito che è nata una forte spinta che mi ha avvicinato alla fotografia: la necessità di rappresentare il fermento che stavo vivendo attivamente. Da lì in avanti il mezzo fotografico non mi ha più abbandonato e, anzi, ha alimentato le mie sperimentazioni in ambiti anche molto distanti da quelli iniziali. Seppure oggi mi occupi di altro, la mia fotografia si è evoluta e punta ad uno stile diverso».

Quando hai capito che volevi diventare un creativo.
«Non mi sono mai posto davvero questa domanda. Credo che la “creatività” non sia un vero e proprio ruolo da ricoprire, ma un’attitudine, un modus operandi che accompagna tante ed inaspettate sfumature della quotidianità. Essere creativo è soprattutto essere curioso, ed io lo sono sempre stato. Ho creduto per molto tempo che avrei legato – in un modo o in un altro – creatività e professione, ma ho imparato che tutto ciò che è implicitamente legato ad una committenza non si sposa (forse è anche giusto così) con la libertà espressiva tout court. Ho deciso quindi di incanalare la mia creatività in ambito fotografico, slegando il mio lavoro da qualsivoglia subordinazione esterna: in questo modo ho creato un contenitore nel quale inserire delle visioni personali. Mi piace credere che attraverso la creatività io abbia modo di esprimere una mia idea molto più “di pancia” di quanto avessi potuto sperare di fare con le parole. A mio avviso creatività ed emotività collimano in tantissimi aspetti».

Sei appassionato di fotografia e comunicazione visiva, cosa ti piace raccontare con il tuo lavoro? 
«Ho cominciato ad avvicinarmi al ritratto fotografico e me ne sono innamorato, anche se intendo il genere in modo molto ampio. Lo scambio con le persone, relazionarmi in modo empatico e tradurre tutti gli input che ricevo in immagini: è questa la linea guida del mio lavoro. Ho condensato tutta la mia ricerca su questi aspetti, tanto da focalizzarmi soprattutto sull’importanza di associare al ritratto una storia. Ci sono molti aspetti simbolici nei miei lavori: i colori, i segni, le posizioni che spesso faccio assumere ai miei soggetti sono il frutto di un pensiero sempre condiviso e finalizzato al racconto. A raccontare cosa? Ogni volta è diverso, perché diverse sono le persone che incontro e alle quali chiedo di posare. In questo senso la “comunicazione visiva” assume una connotazione più tangibile: associando una storia a un ritratto riesco a far immedesimare l’osservatore nella scena che gli sto proponendo. Le persone e le loro identità mi interessano e sono l’oggetto principale delle mie sperimentazioni».

Nella tua formazione artistica c’è anche l’Architettura, come questa influisce sul tuo stile.
«Come ho anticipato, la formazione da architetto mi suggerisce un’impostazione disciplinata in ogni progetto che inizio. La pianificazione che adotto è generalmente scandita da una prima fase di ideazione (che può durare settimane), una intermedia di approfondimento ed una finale di realizzazione. Tutti passi che si potrebbero applicare ad un progetto di architettura, o ad una qualunque altra opera figlia di un pensiero critico. Il mio stile è molto cambiato nel corso del tempo ed auspico che subisca ancora numerosi cambiamenti, sinonimo di crescita. Volendo fare auto-analisi, sono attratto dalle geometrie dei volti e dalle composizioni simmetriche, spesso nei miei ritratti tendo a vedere i soggetti da una prospettiva centrale, enfatizzando dettagli, gesti, linee, caratteristiche fisiche. Certamente ci si potrebbe trovare un contatto col corpus delle discipline architettoniche, ma credo che si tratti solo di una stratificazione nella mia testa. Non mi accorgo nemmeno più di comporre un’immagine seguendo un canone di equilibri che utilizzerei per costruire la facciata di un edificio: in entrambi i casi quello che conta è la determinazione di una pelle, formalmente impeccabile, che possa contenere una storia preziosa da fermare e raccontare. In entrambe le discipline, fotografia e architettura, alla fine del processo creativo bisogna avere davanti un organismo vivo ed emotivamente interessante».

Tu sei co-fondatore di tre progetti interessanti sempre legati alla comunicazione visiva. Raccontaci di questi.
«Sì, non mi annoio mai. La passione per le immagini mi ha portato a fondare con altri 11 amici nel 2014 il collettivo fotografico “ContrastoLab“. Si tratta di un’Associazione culturale no-profit che tende a unire fotografi amatoriali e professionisti del territorio reggiano, proponendo attività di varia natura sempre finalizzate alla crescita tecnica e culturale in ambito fotografico. Nel 2019 invece ho co-fondato “Fotografia Liquida“, una piattaforma che si occupa principalmente di formazione, offrendo spunti in diversi generi fotografici con una formula che abbiamo definito EFC (Esperienze di Fotografia Condivisa): l’immersione nei contenuti – fianco a fianco – è un canale di apprendimento veloce e solido nel quale unire competenza e divertimento (sempre alla base di qualsiasi attività!). Le EFC sono dei workshop intensi e produttivi dove i partecipanti non sanno bene cosa aspettarsi, ma alla fine vanno via sempre con un prezioso bagaglio di esperienze. In ultimo (ma non per ultimo) con “Fotografia Liquida” ho lanciato il progetto “Cromìa“, un’idea editoriale che intende unire le attività di tutte le realtà culturali (autori, gruppi, circoli, collettivi e associazioni) che attraverso lo studio e la pratica delle discipline fotografiche ne promuovono la diffusione territoriale e lo sviluppo comunicativo. Si tratta di un magazine dal taglio editoriale che punta alle persone e alle loro storie (sempre ricorrente questo tema!): riempiono ed animano il nostro vivere quotidiano, fanno parte della nostra vita. Nel mio lavoro, così come nei progetti nei quali sono coinvolto, credo che la fotografia non possa trascendere dal doversi rapportare con le persone: tutto ciò che le coinvolge, che provoca empatia, che trasmette emozione attraverso la leva della presenza umana è senza dubbio di mio interesse».

C’è un progetto fotografico a cui sei più legato?
«Quando mi capita di fotografare persone che conosco da diverso tempo e con le quali c’è un rapporto di amicizia, realizzo immagini molto più potenti del solito. Quando ho fotografato M. e realizzato gli scatti che ho battezzato nel mio portfolio con “Everyone dress a mask“, abbiamo lavorato insieme sul concetto di maschera (in letteratura molto abusato), cercando di tradurre quello che provavamo in quel preciso istante. Il progetto in sé nasce da un’idea precisa: cercare di raccontare con poche immagini il percorso di un ragazzo sul punto di lasciare il paese per cercare fortuna altrove. La storia non era inventata, era la reale storia di M. Non una storia d’altri tempi, ma una di quelle che che toccano i figli di una generazione nata a cavallo di una delle più grandi crisi economiche degli ultimi 50 anni, costata all’Italia già più di 250mila giovani in dieci anni. Si tratta della generazione dei trentenni che emigrano stanchi di fare debiti col proprio futuro, animati dalla voglia di sperimentare una quotidianità diversa, fatta di prospettive e possibilità. Il soggetto di questa sessione fotografica ha dovuto combattere col suo demone interiore: fuggire dalla sua terra, dalla sua città per ricostruirsi una nuova identità altrove. Lasciare famiglia, amici e lavoro per tentare la fortuna in un altro paese. In questa sessione M. si è messo completamente a nudo, mostrando il suo lato fragile, intimo. Vestito soltanto d’una maschera di polvere, ha cercato di guardarsi dentro in una porzione di tempo che è sembrata durare un’eternità. Gli scatti sono stati eseguiti a distanza di poche settimane dalla sua partenza, per questo motivo hanno un sapore ancora più amaro: rappresentano un’istantanea prima di un evento sconvolgente. Che lo si voglia o meno, nulla tornerà come prima: ingranata la marcia del minivan si procede adagio verso l’ignoto e non si torna più indietro».

Cosa non deve mai mancare mentre lavori.
«Una colonna sonora, un buon disco. Certe volte può anche condizionare alcune scelte e questa possibilità mi affascina moltissimo, mi ricorda ogni volta che siamo strutturati per captare ogni sollecitazione esterna e che bisogna cavalcare l’onda e lasciare che la creatività si espanda in lungo e in largo. Non c’è un genere preferito, ad esempio quando ho fotografato L. in una sessione di “Tribal Maternity” mi sono stati suggeriti degli autori perfettamente nel mood della scena e ci siamo lasciati trascinare dai colori e dagli odori che la musica descriveva. Ogni progetto è un viaggio, ed ogni viaggio ha una sua playlist».

Come stai vivendo questo particolare momento storico. 
«Cerco di vivere la quotidianità in modo pro-attivo, nonostante tante abitudini siano cambiate e tante altre cambieranno. Nei periodi di lockdown più serrato non ho mai smesso di lavorare con le immagini, dedicandomi sempre più spesso all’analogico. Una passione che la frenesia della normalità aveva relegato sempre più all’ambito dei ricordi. Ho rimesso in piedi una piccola camera oscura, cominciando a dedicare parte del mio tempo libero ad una fotografia fatta di pellicola e acidi. Ne è nato un piccolo ebook sfogliabile online che ho chiamato (con molta fantasia!) “Into The Darkroom“. Mi sono chiesto cosa rappresentasse per me questo ultimo lavoro, la risposta risiede nella grande voglia di rinascimento. Dopo tutta questa reclusione e frattura sociale, abbiamo tutti bisogno di rinascita, abbiamo tutti bisogno di coltivare vecchie e nuove passioni per avvicinarci all’equilibrio perduto. Continuo a vivere questo momento storico godendo come meglio posso della mia famiglia e desiderando un nuovo modo di comunicare con le immagini, oggi più che mai importante con i nuovi scenari di distanziamento sociale».

Quali i tuoi progetti per il futuro.
«Mi piacerebbe approfondire il ritratto fotografico in ambito scenico e cinematografico. Credo che appena possibile mi muoverò con progetti in tal senso. Durante gli ultimi lavori ho sentito crescere sempre più la necessità di collaborare attivamente con scenografi e artisti, per condividere progetti ambiziosi nei quali la fotografia possa essere il veicolo di un lavoro più complesso. Come dicevo, “Fotografia Liquida” mi consente di conoscere tante persone: mi piacerebbe creare un vero e proprio team strutturato con figure di estrazione molto diversa ma accomunate da talento e passione per la comunicazione visiva».

Una curiosità prima di lasciarci.
«Quando cammino in strada a piedi o in auto, mi capita spesso di fermarmi per fotografare al volo qualche scena, linea, dettaglio, che prontamente invio agli amici/compagni di progetto… intasando le memorie dei telefoni di tutti con montagne di materiale che 9 volte su 10 si rivela inutile. Tutti spunti su progetti irrealizzabili o troppo volatili, o troppo fuori tema ma comunque interessanti: perché si sa che i creativi sono costantemente in bilico tra l’entusiasmo e lo scoraggiamento! E’ un meccanismo automatico che ne garantisce il sostentamento».

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