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Tempesta (1506-1508)

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“Ci sono alcune cose che impari meglio nella calma, e altre nella tempesta”.(Willa Cather, scrittrice statunitense)

Da sempre le tempeste, violente e improvvise perturbazioni atmosferiche, e ogni sorta di calamità naturale, impressionano l’uomo. In un cielo minaccioso egli proietta la sua inquietudine, la sua totale impotenza e fragilità di fronte alla forza della natura. Ultimamente un po’ tutti siamo diventati spettatori diretti dei disastri ambientali. Essi rappresentano la piaga dei nostri tempi, e sono dovuti, come ben sappiamo, alle variazioni climatiche e all’inquinamento in continua crescita. La vita frenetica delle città e la tecnologia stanno creando in noi una spessa scorza, fatta di indifferenza, e insensibilità. Questa dura corteccia ci impedisce di dialogare con il nostro “Io” interiore e con la natura, la quale parla, e spesso lo fa attraverso una voce sottile, a volte impercettibile. Per riuscire a ritrovare questo dialogo, bisognerebbe liberarsi da questa dura scorza, far tacere quell’incessante chiacchiericcio interiore che ci distrae dalle cose più importanti.La “vita contemplativa”, nel Cinquecento, faceva parte della cultura veneta e non solo. Molti intellettuali e artisti dell’epoca, ripresero in questo secolo, il fervente dibattito che vedeva da una parte la “vita contemplativa” (ossia la contemplazione intellettuale e religiosa nella solitudine, e nel distacco dalle vicende mondane) e dall’altra “la vita attiva” (al servizio della comunità e rivolta al conseguimento dell’ “onore”). Due aspetti questi in perfetta antitesi, poiché l’inseguimento del successo, comporta inevitabili rinunce. Oggi la vita contemplativa ci appare come una folle astrazione, una specie di miraggio, un concetto troppo lontano, distante dal nostro modo di vivere. Eppure basta un cielo grigio, o l’arrivo di una tempesta, a risvegliare in chiunque sentimenti di famigliarità con la natura, una connessione che abbiamo involontariamente interrotto a causa della nostra vita frenetica. In questo senso, la Tempesta di Giorgione ridesta quei sentimenti assopiti, a lungo trascurati e che riguardano fondamentalmente il nostro mondo interiore. Dipinta tra il 1506 e il 1508, la nota opera dell’artista veneto, è costituita da un vasto paesaggio campestre, nel quale sono inseriti due personaggi: a sinistra un uomo in piedi, appoggiato a un lungo bastone, e a destra una donna nuda, seduta su un candido lenzuolo, colta nell’atto di allattare un bambino. L’interpretazione della scena, nonostante l’accanimento della critica, rimane ancora misteriosa. Tra le molte ipotesi avanzate, conviene rifarsi alla testimonianza di Marcantonio Michiel, patrizio veneziano dell’epoca, che vide il quadro nel 1530 e lo descrisse così nelle sue Notizie d’opere e di disegno: «el paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana [la zingara] et soldato». La difficoltà nel riconoscere la storia narrata è dovuta alla scarsa importanza che Giorgione le attribuisce, per cui l’uomo e la donna non sono altro che una sua “trovata compositiva”. Essi partecipano all’evento naturale che sta per accadere, e l’elemento principale che cattura la nostra attenzione è proprio il lampo improvviso che squarcia un cielo carico di nubi minacciose. Incredibile è però la tranquillità della donna che allatta: un gesto forte e coraggioso, nonostante l’incombente minaccia. Un’opera che fa tanto riflettere, soprattutto per il momento di incertezza che stiamo vivendo tutti. Se ci soffermiamo anche solo un attimo sul gesto, (quello di allattare e nutrire un altro essere vivente) questo dovrebbe compiersi nell’assoluta tranquillità e in un luogo confortevole, protetto. E invece Giorgione crea un contrasto forte e non lo fa stavolta attraverso i colori, ma lo realizza attraverso le sue scelte compositive. Un quadro può dunque diventare il giusto tramite, per ristabilire quel rapporto perso con la natura. Il personaggio di Giorgione ci insegna ad avere fiducia anche durante le avversità, e come ben afferma la scrittrice statunitense citata all’inizio del mio scritto, si può addirittura imparare meglio durante una “tempesta”.

a cura di Maria Rosaria Cancelliere

“Ci sono alcune cose
che impari meglio nella calma,
e altre nella tempesta”

Willa Cather, scrittrice statunitense

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