Andrea MOZ Montagnani

Street art e fotografia per esprimere anche paure e fragilità

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Andrea MOZ Montagnani è un fotografo, illustratore e street artist che ha trovato nell’arte un mondo in cui dare sfogo alla sua esigenza espressiva.

Breve presentazione.
«Sono nato a Volterra, piccola cittadina toscana nel 1989. Ho frequentato il liceo scientifico e proseguito gli studi in economia a Siena. Sono cresciuto con gli schemi mentali dottrinali di maestri, professori e parenti, vedevo la mia vita già decisa a tavolino da altri ed ero convinto che una buona scuola, una buona laurea e un contratto a tempo indeterminato in qualche ufficio avrebbe fatto di me una persona soddisfatta. Iniziai a chiedermi chi fossi davvero e cosa avrei voluto dalla mia vita, non volevo accontentarmi e volevo rischiare. L’insoddisfazione per le scelte fatte cresceva sempre di più dentro di me e insieme la voglia di iniziare un percorso di crescita personale e professionale che fosse in linea con me stesso. Decisi di trasferirmi a Firenze nel 2011 e iniziare una nuova fase della mia vita. Ho frequentato la scuola di fotografia Fondazione Studio Marangoni, non avevo mai scattato fotografie, ma ero talmente affascinato da quel mondo e dal poter creare immagini che avevo nella mia testa, che mi decisi a farne una professione».

Raccontaci le tue esperienze artistiche.
«Dal 2013 al 2015 ho collaborato con lo stylist del Polimoda International Institute e ho lavorato come assistente fotografico per Edoardo Delille di SportWeek e Costantino Ruspoli a Firenze e Milano. In seguito a brutte perdite familiari e affettive, decisi di scappare ad Amsterdam, città in forte fermento artistico e di contaminazioni da tutto il mondo. Ho realizzato alcuni shooting commissionati e intanto mi avvicinavo sempre più alla spray art. Sono cresciuto ascoltando rap e con la contaminazione della cultura hip hop americana. Da piccoli passavamo le giornate negli edifici abbandonati dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra ed ero ipnotizzato dai graffiti del grande Nannetti Oreste Fernando e da Nico Lopez Bruchi, writer compaesano da sempre, modello di ispirazione e grande motivatore. Avevo iniziato a prendere in mano le prime bombolette e disegnare i primi sketch e ne sono stato rapito completamente. Con altri due ragazzi iniziammo a dipingere e partecipare alle prime jam senza neanche sapere cosa stavamo andando a fare, ma ne avevamo semplicemente bisogno. Tornato a Firenze dall’Olanda arrivarono le prime commissioni e realizzammo i primi murales, questo mi ha permesso di conoscere la scena fiorentina e poi italiana del graffitismo. Mi sono concentrato sull’urban art come mezzo di riqualificazione urbana, realizzando progetti per reparti ospedalieri, scuole e associazioni culturali. A giugno 2017 abbiamo vinto il primo concorso nazionale, con la conseguente realizzazione di un murales a Livorno. Ho collaborato con elektro Domestik Force, crew capitanata da Nico Lopez Bruchi nella realizzazione del loro progetto Tuscany’s urban colors correction. Nel 2019 ho vinto il secondo concorso nazionale “Impiastreet” di Bergamo ed è stata la molla definitiva per credere in questo sogno. Al momento realizzo commissioni fotografiche e video con il mio gruppo di lavoro “Emme Studio” e parallelamente sto realizzando nuovi progetti di riqualificazione urbana con varie associazioni culturali. “Sketchiness”, la mia prima personale di illustrazioni che aveva tappa a Firenze, Milano, Napoli, Roma, Londra, Amsterdam è stata rinviata al 2021, a causa del Covid-19».

Quando hai deciso che saresti stato un artista?
«Non mi considero un artista e odio quell’appellativo di cui si abusa troppo in questa epoca, mi ritengo solo un perenne sognatore, con molti traumi, ansie, insicurezze e fantasmi che mi accompagnano lungo il mio percorso e che devo vomitare su un foglio, un muro o una pellicola. Tutta la mia esperienza espressiva nasce dal bisogno istintivo di sfogare tutte le mie paure. Dopo la morte di mio padre ho fatto uso di antidepressivi e sono scappato da tutti gli affetti per poter toccare il fondo e ripartire. Ricordo il tutto come il periodo buio della mia vita, ricordo che volevo dormire per non restare sveglio, ma adesso sono consapevole e felice della ricchezza che quel momento mi ha lasciato. Quell’esperienza depressiva ha permesso di liberarmi di tutta la negatività e dei medicinali, di incanalare l’energia negativa e trasformarla in linguaggio artistico. Non ne so niente di tecnica del disegno o di pittura, ho iniziato tardi a dipingere, ma ho voluto mettermi subito in gioco per salvarmi, per un bisogno vitale e istintivo, a prescindere da cosa sapevo fare e dal giudizio degli altri. Adesso vedere i miei “mostri” impressi su una qualsiasi superficie è motivo di profonda soddisfazione e liberazione. Voglio vivere con ciò che amo fare, non c’è niente di più soddisfacente per me di tornare a casa da una giornata di lavoro stanco, ma pieno di gioia per aver realizzato qualcosa di mio anche se commissionato da altri. Non avrei mai creduto di poter essere pagato per questo e mi sento l’uomo più fortunato del mondo ogni giorno per questo e dovesse finire domani sarà stato comunque tutto stupendo. Mi sento ancora all’inizio di questo percorso e devo ancora imparare tutto del writing e del disegno in generale, ma dipingere è in primis un modo per sfogarmi, quindi perché non sfruttare questa dipendenza e trasformarla in una professione?!».

Tu sei fotografo, illustratore e street artist… Queste tre capacità artistiche convergono o hanno vita propria?
«Dopo pochi mesi che avevo iniziato a disegnare vidi che il foglio di carta non mi bastava più e che dovevo iniziare a tradurre quegli sketch in murales, così iniziai a esplorare luoghi abbandonati e ad utilizzare i primi spray. Il profumo della vernice, l’adrenalina e il silenzio meditativo che si crea in quei momenti diventano una dipendenza; la voglia di competere e relazionarsi con gli altri artisti fanno il resto e ogni illustrazione sta quindi diventando sempre più la matrice di ogni murales. Non ho mai fatto interagire fotografia e illustrazione o pittura ma sto sperimentando adesso questa fusione con un primo progetto sul problema della plastica e sul concetto di imballaggio dell’anima e dell’identità, di produzione seriale e standardizzata delle nostre vite che diventano spazzatura».

Che aggettivo useresti per descrivere il tuo stile, come nascono le tue opere e quale messaggio nascondono?
«Definirei il mio stile istintivo e inconscio, è la pura proiezione di me stesso, non esiste niente di premeditato in ciò che produco. Di solito il messaggio si nasconde all’interno dell’illustrazione e sono il primo a scoprirlo soltanto dopo averla esaminata, riuscendo a ricondurre quelle immagini al mio IO, alle esperienze che mi hanno segnato, al momento che sto vivendo e ai sogni che ho».

Quali progetti hai per il futuro?
«Voglio continuare a dipingere e realizzare progetti sociali e di riqualificazione urbana. Il progetto finale sarà quello di vivere la campagna dove sono cresciuto, mantenendo attive la mia professione e passioni finché ne avrò bisogno e voglia».

Cosa non deve mai mancare nel tuo zaino da lavoro?
«Le mie cuffie sporche di spray sono sempre con me; non potrei farne mai a meno, riescono a farmi isolare completamente e dedicare tutto me stesso a ciò che sto facendo».

Cosa vuol dire essere un artista oggi?
«Credo profondamente che l’arte sia toccasana per l’anima di ognuno di noi, una parentesi di cui tutti possono fruirne che astranea dalla quotidianità. Lo strumento più efficace e diretto per stimolare i sensi dell’uomo, il punto di unione universale delle persone. Non so cosa vuol dire essere un artista oggi, ma credo sia fondamentale per un artista farsi portavoce e condottiero di un messaggio universale di unione e di speranza in una società ormai usurata e fallimentare».

Scopri il video dedicato all’artista

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