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Fotografie immobili, surreali e metafisiche, dentro l’idea di una forma del tempo

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Sergio Giannotta è un fotografo e pittore artisticamente legato all’emozione del tempo che passa. Rivela attraverso i suoi scatti l’identità della memoria.

Breve presentazione.
«Mi chiamo Sergio Giannotta sono nato a Catania nel 1965 dove vivo e lavoro. Ho frequentato il Liceo Artistico Statale e l’Accademia di Belle Arti (sezione Pittura). Dopo iniziali esperienze nel campo della pittura, mi avvicino alla fotografia, attività in cui comincio ad occuparmi, coerentemente e con costanza, a partire dal 2005, partecipando a diverse mostre collettive e personali».

Prima la pittura poi la fotografia, come è nata la passione per l’obbiettivo.
«Non c’è stato un momento ben preciso in cui questa passione si è rivelata, ma piuttosto tutta una serie di avvenimenti interiori che mi hanno ricondotto alla fotografia. Dico ricondotto perché il mio interesse iniziale è stato essenzialmente pittorico e alla pittura e allo studio di essa ho dedicato parecchi anni della mia vita. Il ritorno alla fotografia, praticata in età giovanile, è stato come un interiore ritorno dopo un lungo viaggio e il naturale approdo verso una riva da cui ero partito molti anni prima».

Sembra che i tuoi scatti arrivino da una capsula del tempo, ci racconti come mai questa scelta?
«
Tutto il mio lavoro si pone come una riflessione emozionale sulla memoria e sul tempo, intesi come un susseguirsi di piccole variazioni, di istanti differenti in una continua riflessione dinamica sul tempo stesso, per coglierne la stabilità e rivelarne l’identità attraverso la memoria. Le mie immagini risultano sempre in qualche modo immobili, surreali e metafisiche, dentro l’idea di una forma del tempo, verosimile e visionaria, che rende così le immagini stesse dense e piene di memorie. E’ un lavoro di continua erosione, di continua sottrazione nel tentativo del tempo e della memoria di cogliere l’identità di ciò che rappresento e delle cose nel loro divenire. Tutto viene immerso in una luce che attraversa le cose rappresentate come rivelazione epifanica, onirica e simbolista, ma allo stesso tempo lucida e razionale, rappresentando e rivelando in questo modo, forme a volte nitide, altre volte senza contorni definiti che svelano così la loro identità, il tempo e la memoria che li accompagna, li attraversa e li rende parte dell’esistenza di ciascuno di noi».

Che tecniche e materiali usi per ottenere questi risultati?
«Non prediligo una specifica tecnica in particolare, adatto la tecnica e il mezzo espressivo in funzione di ciò che voglio rappresentare. Ho usato l’analogico con il medio formato, il digitale, le Polaroid con cui ho realizzato un’intera serie di immagini dal titolo “Ieri ho sognato un giardino” perché le Polaroid, nella loro incredibile imperfezione, mi servivano a fermare un’emozione più che un istante e diventavano il riflesso di uno stato d’animo. Indistinte a volte, lievi, sbiadite, imprevedibili e bizzarre, rappresentavano una sorta di dialogo, tutto muto ed interiore, tra ciò che il mio occhio vedeva e ciò che la mia interiorità restituiva. Ho usato per alcuni lavori la cianotipia spingendola verso i suoi limiti estremi realizzandola su supporti di carta diversi. Diciamo che l’utilizzo di diverse tecniche e materiali è qualcosa che ha a che fare con il mio perenne desiderio, quasi alchemico, di provare sempre nuove forme di espressione, di sperimentare e ricercare sempre nuove soluzioni formali».

Cosa non deve mai mancare nelle tue immagini? E quando scatti?
«Non deve mai mancare l’unicità dell’emozione, la tensione emotiva all’interno di ogni immagine. Non deve mai mancare la paura di sperimentare linguaggi e tecniche nuove, lo stesso quando scatto una foto. Non so prevedere verso dove andrà la mia fotografia, che percorso intraprenderà, difficile dirlo, ma so di certo che farò in modo che non perda di vista queste direttive».

Tu hai partecipato a tantissime mostre collettive e personali, come stai vivendo questa particolare situazione legata al Covid-19? 
«Ho cercato di vivere questo periodo difficile, in cui qualsiasi attività espositiva è stata limitata se non del tutto soppressa, come una sorta di momento di inaspettata verifica interiore e possibilità di mettere ordine dentro se stessi, un riportare a galla qualcosa che si era messo da parte, o che si era voluto mettere da parte. L’ho immaginato, vissuto e continuo a viverlo come una sorta di mare nero e profondo nei cui flutti, forse, bisogna trovare qualcosa che ci può appartenere. Nel mio caso mi è servito anche a ritrovare un nuovo rapporto con la pittura che ho ripreso, realizzando dei lavori di grande formato e che mi ha dato stimoli per nuove avventure espressive e nuovi progetti».

C’è un film, una canzone o un libro che racconta o influenza il tuo modo di vedere le cose e quindi determina anche il tuo stile?
«Credo che lo stile sia il peso di quello che si è su quello che si fa e questo è sempre il risultato di tanti film visti, di tante letture effettuate e tanta musica ascoltata. Ho amato e continuo ad amare autori del cinema come Bergman, Tarkovskij, Antonioni, Fellini, il primo Wenders, il Ridley Scott di “Blade Runner” per esempio o scrittori come Joyce, Proust, Borges, i nostri Calvino, Buzzati, e tanta musica che spazia dal jazz alla classica fino alla musica d’autore».

Hai qualche progetto particolare a cui stai lavorando o vorresti realizzare?
«Non inizio mai un progetto intenzionalmente, ma sono le immagini che spesso vengono a me e piano piano per affinità tra alcune di loro, diventano progetto. In diverse immagini che ho già realizzato ho intravisto alcune affinità, caratteristiche che possono suggerire l’inizio di vari progetti e che mi piace portare avanti contemporaneamente. Tuttavia un progetto a cui già sto concretamente lavorando e che vorrei esporre in una personale è quello di abbinare pittura, attraverso dei quadri di grande formato che sto realizzando, e fotografia, come in un gioco di specchi, l’uno come il riflesso dell’altro, in un gioco di rimandi, nell’unicità della pittura e che dovrebbe essere anche della fotografia attraverso dei pezzi unici».

Una curiosità prima di lasciarci.
«La curiosità è quella che ho sempre pensato che alla fine di un’intervista, io possa concludere e rivolgere a me stesso la domanda “Che tempo farà?” intendendo chiaramente non il tempo in senso meteorologico, ma la percezione personale che ogni artista ha del suo tempo e del tempo che verrà. Ma per rispondere ci sarebbe bisogno di un’altra intervista nella quale alla fine avrei la stessa curiosità e mi porrei la stessa domanda…»

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