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Alla ricerca dell’armonia per trasmettere la quiete immutabile

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Giorgio Di Maio è un architetto e fotografo professionista che nei suoi scatti racconta l’Armonia Nascosta che ci circonda e ci rimanda a un senso di pace.

Breve presentazione.
«Mi chiamo Giorgio Di Maio e sono nato a Napoli. Mi sono laureato in Architettura e ho svolto la libera professione fino al 2018. Oggi ho la partita iva come fotografo e, dal 2019, vivo girando tra Milano, Brescia, le Marche e Napoli».

Quando hai capito che la fotografia era per te un mezzo di espressione
«L’approccio alla fotografia è stato casuale e fatico a ricordare una mia passione per la fotografia prima che mia madre avesse deciso di regalarmi una reflex. Ero ai primi anni degli studi di architettura e quindi non avevo ancora una conoscenza linguistica né tantomeno pensavo che esistesse una possibilità di esprimersi e comunicare attraverso altri mezzi che non fossero la scrittura. Però, da subito, le mie fotografie furono istintivamente di ricerca e capii che riuscivo a trasmettere un “qualcosa”, delle emozioni che coinvolgevano i miei amici quando le sottoponevo alla loro visione. Una festa con proiezione di diapositive divenne allora come un rito al ritorno di ogni mio viaggio estivo. Non che li costringessi! Era un evento richiesto e gradito».

Architettura e fotografia, raccontaci come queste interagiscono.
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Guarda, non vorrei deludervi, ma per quanto mi riguarda, sono dei campi di attività assolutamente indipendenti l’uno dall’altro. L’architettura è stato il grande amore della mia vita. E’ un’Arte sublime: disegnare gli spazi dove si muoveranno le persone, determinandone comportamenti e agendo per questo sui loro ricordi. Quando progetti immagini chi vi si muoverà dentro e, mentre disegnavo, pensavo sempre a come rendere felici gli abitanti delle mie piccole architetture, a come sorprenderli. Ma ero legato a un senso della sorpresa più intimo di quello al quale ci sta abituando l’architettura dei giorni nostri. Penso, ad esempio, a quelle stradine medievali che percorri inconsapevole che possano portarti a luoghi come Piazza del Campo, come accade a Siena. Non allo stupore che si ha oggi innanzi allo spettacolo che possono offrire alcune ardite realizzazioni grazie alle nuove tecnologie. La fotografia è altro: un mezzo molto più semplice da usare, la possono fare tutti e non richiede una laurea, congela il paesaggio, sia naturale che già costruito, e le azioni al suo interno delle persone. Ciò nonostante la fotografia ha forse maggiori possibilità comunicative e capacità di agire sull’animo umano. Poi, con click, può essere vissuta in un attimo dal mondo intero. Che poi la mia ricerca visiva dipenda totalmente dalla mia formazione linguistica come architetto, questo è un altro discorso. Ma non solo, mi sia consentito di dire, per l’essere architetto, ma in quanto sono un architetto che ha privilegiato nei suoi studi l’uso del “segno” nelle sue possibilità espressive».

Dal 2013 decidi di “rallentare” come architetto per dedicarti alla filosofia, come mai hai sentito questa esigenza e come si coniuga con la fotografia.
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Come dicevo, ho sempre fatto molta attenzione non solo allo studio delle opere di architettura, ma anche agli scritti teorici dei loro autori. I miei progetti non miravano alla realizzazione di una architettura di successo, ma all’espressione di una visione del mondo che, ovviamente, andava conciliata con le esigenze della committenza e con le risorse economiche disponibili. Tanto che il prof. De Fusco ha scritto che l’unica architettura che può essere veramente di avanguardia è quella che resta sul foglio da disegno, perché così libera da ogni compromesso. E ho avuto la fortuna di avere un istinto coerente nel tempo, oserei dire dall’infanzia a oggi: in tutto ciò che mi piaceva e che mi ha attratto nel corso degli anni ho sempre scoperto una comunanza filosofica. Le planimetrie dell’architetto americano Frank Lloyd Wright sono state la mia bibbia, e per Wright le architetture dovevano essere organiche a un reale in continuo divenire. Dichiarava che il divenire “è l’unica verità che ci è dato di conoscere”, affermazione che può sembrare banale nella sua incontrovertibilità, tuttavia la cito per ricordare che Eraclito con il suo Pánta rheî è stato il mio filosofo preferito, fin dalle medie. Insoddisfatto da una vita professionale difficile, che mi aveva portato a interessarmi anche di consulenza tecnico-legale e non solo di progettazione, coinvolto dalla grande recessione degli anni 2007-2013 a seguito della crisi dei subprime, ho preso la decisione, assolutamente irresponsabile dal punto di vista personale, di dedicarmi interamente all’altro amore, quello per la fotografia (ero già stato autore di una serie di mostre a Napoli), per tentare di dare un senso sociale alla mia vita e farmi portatore di un qualche messaggio».

Armonia nascosta, un progetto che racconta diversi aspetti in diverse situazioni, ce ne parli?
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Quando nel 2013 ho deciso di dedicarmi alla fotografia mi sono messo a fotografare e, nel contempo, a leggere. Si trattava ora di fotografare non solo portato dall’istinto ma di acquisire consapevolezza della mia ricerca e, successivamente, iniziare un processo di miglioramento qualitativo della mia produzione fotografica. Eraclito, Bergson, Kandinskij, Klee, Baudelaire. Il Neoplasticismo, di van Doesburg e Mondrian, che era stato la mia primissima passione da studente della facoltà di Architettura. Mi ha sempre affascinato il concetto di van Doesburg per il quale “… questa armonia è fondata sulla conoscenza dei contrasti, del complesso dei contrasti, delle dissonanze, ecc. che rende visibile tutto ciò che ci circonda. La molteplicità dei contrasti determina enormi tensioni che creano, per reciproca soppressione, equilibrio e riposo”. Ho identificato questo stato di pace con L’Armonia nascosta che è il logos di Eraclito, l’immutabile nel continuo divenire, e così mi sono messo alla ricerca dell’Armonia nel circostante che, quindi, non viene più dipinta sulla tela come provava a fare Mondrian, ma trovata e fotografata intorno a noi. Perché diversi aspetti e diverse situazioni? Principalmente per due motivi: il primo è per dimostrare che l’Armonia è ovunque, nel bello e nel brutto, nel ricco e nel povero; il secondo dipende dalla difficoltà con la quale la critica, una certa critica, diffida verso la mia ricerca e la tende a liquidare come un già fatto. La varietà degli equilibri fotografati mi diventa allora uno strumento di lotta. Infine, opero questa mia ricerca per la diffusione di un messaggio che è un messaggio di Pace, condividendo il Principio di Equivalenza di Stieglitz, in seguito formulata da Minor White con queste parole: “Se l’osservatore realizza che, per lui, ciò che vede nell’immagine corrisponde a qualcosa all’interno di sé e cioè che la fotografia riflette qualcosa dentro di sé, allora sta sperimentando un certo grado di Equivalenza.” Fotografo con l’ambizione di risvegliare nell’osservatore delle mie foto la presenza di pace».

Come nascono i tuoi scatti?
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Qui il discorso rischia di farsi più specialistico. Per prima cosa posso dire che sono allenato: oggi evito scatti che facevo all’inizio e che oramai ritengo facili e superati. La sfida è andare a trovare armonie sempre più nascoste! Mi spiego. La fotografia dell’Armonia nascosta si basa sul considerare la foto per quella che è, ovvero un piano bidimensionale. Così come le Avanguardie Figurative ai primi del Novecento iniziarono a considerare la tela per essere appunto non altro che un piano, dunque a due dimensioni. Si arrivò cosi all’astrattismo. Partendo dai fauves, i pittori rinunciarono a riprodurre le tre dimensioni del circostante, ma iniziarono a disporre sulla tela punti, linee, colori, forme, in maniera da riuscire a esprimere un “contenuto altro”. Sino ai tentativi di Mondrian di riprodurre la Verità, l’Armonia, con l’uso delle sole linee ortogonali e dei colori primari. Perciò quando io passeggio per fotografare non guardo i fenomeni, ma gli elementi linguistici che li compongono. In altri termini, il tubo di una pluviale per me non è un tubo, ma una linea. E una finestra tonda non è una finestra, ma un cerchio. Non a caso ho parlato dei tubi, perché “i sentieri dell’acqua” è stato uno dei primi miei due progetti, assieme a “Chiaroscuro” con i quali mi sono avvicinato all’identificazione dell’Armonia nascosta nel circostante. Come un bambino che inizia a scrivere. E cosa accadeva, partendo dallo studio di linee e ombre, secondo gli insegnamenti di Klee? Che gli elementi linguistici erano già contenuti su un piano, solitamente la parete di un edificio, dalla quale estrapolavo un frammento. Oggi, che sono diventato più addestrato, guardo gli elementi linguistici che sono situati su piani differenti, anche abbastanza distanti tra loro, riuscendo a estrapolare un frammento spaziale che mi forma la composizione sul piano bidimensionale della foto. Per chiarire, ad esempio il tubo, una linea è presente sulla parete più vicina a me che fotografo, la finestra tonda è su un altro edificio più distante, mentre una macchia gialla è presente ancora su un’altra parete di un altro edificio, nell’angolo opposto a quella della finestra. L’obiettivo è una composizione di elementi diversi che però visti sul piano bidimensionale della foto riescono a esprimere un senso di quiete immutabile».

Cosa non deve mai mancare in una tua fotografia.
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L’equilibrio; l’Armonia nascosta».

Considerato la tua esperienza lavorativa e artistica, come stai vivendo questo particolare momento dove l’arte è tra i settori più penalizzati a causa del Covid?
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Innanzitutto la vivo come ogni altra persona, con le ansie, le difficoltà, la stanchezza di tutti. Chiusi in casa da oltre un anno avendo impedimenti a vedere anche le persone più care come i genitori o i figli, lontano dagli amici e senza sapere quando tutto ciò finirà e se e quando ci verrà restituita la libertà. L’artista ha forse un privilegio: si nutre di vita anche nei suoi aspetti più drammatici. Perciò riesce sovente a mantenere un umore più alto degli altri. Inoltre è abituato a vivere in condizioni di difficoltà. Abbiamo dovuto constatare che non si è esitato a definirci “non essenziali”. Chi ha un lavoro può autocertificarlo e uscire. Ma, ad esempio, gli artisti di strada, sono costretti a restare a casa e spesso non hanno alcuna posizione di quelle stabilite dai vari governi per ottenere una qualche forma di ristoro. Perciò un po’ di rabbia capita, a pensare a quelle folle che si assembravano davanti ai musicisti per le strade delle grandi capitali europee, che assistevano con compartecipazione a quei piccoli spettacoli improvvisati, facendo sorridere i loro bambini, e che oggi invece sembrano rintanati nel loro egoismo individuale non mostrando alcuna preoccupazione per la condizione di assoluta restrizione che l’essere artista sta vivendo. Poi passa. Comprendo. Si vive nel buio, non sappiamo come sarà il dopo. Io ho cercato di non restare fermo. Ho portato avanti il mio ultimo progetto “Il mare di Leopardi” che già avuto qualche pubblicazione. Ho rifatto il sito che completerò con una nuova Pagina destinata allo Shop per la vendita on-line delle mie foto, adeguandomi ai nuovi tempi preannunciati. Mi mancano gli spostamenti, le passeggiate fotografiche, che sono state quelle poche consentite nei periodi di zona gialla. Ma, alla fine, penso che ci si debba sentire fortunati se si è ancora qui e si ha un piatto a tavola. L’Armonia nascosta è anche una ricerca di equilibrio interiore».

Una curiosità prima di salutarci.
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Come curiosità, posso dirvi che al di là del carattere aulico dei miei riferimenti e dei propositi della mia ricerca, mi considero essenzialmente uno scugnizzo napoletano. Parlo in prevalenza con un uso dialettale della lingua, ancor di più da quando sono lontano dalla mia città, da oltre un anno e non era mai capitato prima. I miei miti sono Massimo Troisi e Pino Daniele. Forse sono permaloso, ma da me, mi piace schernirmi, forse oltre il giusto limite, a mio danno in un mondo dove sicurezza e addirittura prosopopea sono elementi chiave per aprirsi la strada che conduce al successo. Di quel che leggo assimilo, ma conservo poco le nozioni su cui appoggiarmi in una conversazione, sviluppando invece un ragionamento personale che so che ha trovato altrove fonti che lo hanno alimentato e formato. Pensate, Massimo Troisi, quale testamento ci ha lasciato con il suo ultimo film “Il postino”? Girando in condizione precarie di salute un film concluso pochi giorni prima della sua morte? Un inno alla poesia che va trovata nel suono delle onde del mare, piccole e grandi, nel rumore della luna, nel suono delle campane della chiesa, del vento, dal battito del piccolo Pablito nel grembo dell’amata. Sono suoni perché il protagonista li registra per inviarli a Pablo Neruda. Ecco, quel testamento è servito anche a me, e cerco di trasmetterlo attraverso le immagini della mia fotografia».

I link dell’artista

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